E' l'ultimo giorno di questa bellissima avventura e il tempo ci sorride ancora con un cielo di un blu immacolato.
Rivediamo, mentre scendiamo dal rifugio verso la Valle di Preda Rossa, tutta la via di salita e l'imponenza del Disgrazia che così benevolmente ci ha accolti sulla sua vetta. Siamo felici e probabilmente questo stato d'animo si riflette sul paesaggio che ammiriamo... che differenza rispetto a due giorni prima con tutto quel grigiore!
I Corni Bruciati formano un'anticamera rossa al ghiaccio candido della montagna e le gande sterili della Bocchetta formano un ammasso caotico sull'altro versante della valle. Mi imprimo nella memoria questa visione e ricomincio a scendere lungo un sentiero che non ammette troppe distrazioni.
Un tizio seduto a cena con noi ieri sera ci offre un passaggio in macchina per l'Alpe di Preda Rossa, coincidendo il nostro con il suo rientro, ma corre, ha troppa fretta di abbandonare questo paradiso e, quando ce ne accorgiamo, lo ringraziamo e lo salutiamo, lasciandolo andare con il suo passo che non concede attimi per guardarsi attorno. Con Giuseppe siamo d'accordo, ci avrebbe rovinato l'ultima tappa. E ci fermiamo quasi un'ora dove il torrente forma rapide e gorghi fra rocce levigate dall'acqua e dal tempo, in un effetto da sogno: scatto molte fotografie al mio socio e lui a me, riposando ai lati del sentiero o saltando tra un sasso e l'altro in mezzo al corso d'acqua; casa e i problemi sono lontani mille anni!
E che dire dell'Alpe di Preda Rossa con il torrente che forma meandri dal tranquillo scorrere in mezzo a prati i un'erbettina ormai prossima all'autunnale? Sogno già di portarci mio figlio in un'appassionante campeggio dispersi nella natura. Poi le macchine parcheggiate e l'asfalto della strada ci tolgono parte dell'incanto anche se la valle (come è lunga!) rimane verdissima e l'affiatamento con Giuseppe rende il tutto piacevole.
Una sosta al rifugio Scotti per bere una bevanda fresca e rifiatare un poco e giù ancora verso l'arrivo.
Una vecchia botta a un dito del piede mette il freno a Giuseppe che vedo soffrire, ma non molla. Se ne accorge anche una famigliola di Como che sta tornando alla propria auto e insiste per portarci a Filorera. Alla fine accettiamo, provati, e in dieci minuti percorriamo più di un'ora di scarpinata, lasciandoci alle spalle sei giorni passati in mezzo alle montagne che sono sembrati un mese di vita sana e avvincente.
A Filorera ci rendiamo abbastanza presentabili e infiliamo con decisione la porta di un ristorante dove Giuseppe mi offre un'abbondante pasto a base di pizzoccheri (c'era da chiederlo?), trota impanata e insalata mista, innaffiato da un vinello rosso che mette allegria solo a vederlo.
La corriera ci accoglie e con il suo ritmo lento ci trasporta a Morbegno, dove abbiamo la coincidenza con il treno per Milano. C'è posto in carrozza e ci rilassiamo osservando il panorama scorrere sotto i nostri occhi. Alla stazione di Colico vedo Giuseppe che strabuzza guardando fuori dal finestrino e lancia un "ma quello è..." e non gli viene il nome. Guardo anch'io e ti vedo Silvano con il suo enorme zaino che sta faticosamente salendo sul vagone; prontamente gli vado incontro e ci scambiamo rumorosi saluti per la sorpresa e la felicità.
In pochi attimi ci raccontiamo tutto e vengo a sapere che si è poi fermato per tutti i giorni al Rifugio Brasca, coccolato "come da una mamma", è la sua espressione, dalla rifugista e, passato dopo un giorno il mal di schiena, ha cominciato a girare i sentieri della zona per tornare alla base tutte le sere, premiato alla cena con il famoso "pollo ruspante del Brasca", per la precisione la coscia (viziato!).
Lo metto al corrente delle nostre giornate e i racconti riempiono il tempo che ci separa da Milano, dove alla Centrale ci salutiamo cordialmente ripromettendoci altri giorni assieme.
L'ultimo tratto verso Pavia lo passiamo con un po' di malinconia e il benvenuto me lo da una zanzara sul pullman che mi riporta a casa, succhiandosi una dose abbondante di sangue ben ossigenato. Alla mia salute! |